Parliamoci chiaro: tutti abbiamo conosciuto quel collega. Sai, quello che in riunione spara paroloni come se fossero coriandoli, promette la luna e poi quando chiedi i risultati concreti sparisce più velocemente di un politico dopo le elezioni. Quello che parla di sinergie, KPI, framework agile e disruption come se stesse recitando il manuale del perfetto bullshitter aziendale.
Ecco, probabilmente hai avuto a che fare con quello che gli psicologi chiamano un caso da manuale di Dunning-Kruger Effect, condito con una bella dose di infedeltà professionale. E no, non stiamo parlando di scappatelle tra fotocopiatrice e macchinetta del caffè, ma di qualcosa di molto più subdolo: persone che mentono spudoratamente sulle proprie competenze.
Il Dunning-Kruger Effect: quando sei talmente scarso da non sapere di esserlo
Nel 1999, due psicologi di nome Justin Kruger e David Dunning hanno pubblicato uno studio che fondamentalmente ha dato un nome scientifico a quello che già tutti sospettavamo: le persone più incompetenti sono spesso quelle più convinte di essere dei geni. Lo studio, pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology, ha dimostrato con dati alla mano che chi ottiene i punteggi più bassi in test di logica, grammatica e ragionamento è anche quello che sovrastima maggiormente le proprie capacità .
I numeri sono spaventosi: nello studio originale, partecipanti che si posizionavano nel misero dodicesimo percentile si autovalutavano al sessantaduesimo percentile. Tradotto dal nerd-ese all’italiano: gente che andava malissimo era convinta di essere nella media alta. È come se il tuo amico che non sa nemmeno dove sta di casa il congiuntivo si proponesse per correggere la Divina Commedia.
La cosa più affascinante e terrificante di questo effetto è che più sei incompetente, meno hai gli strumenti per riconoscere la tua incompetenza. È un circolo vizioso: non sai abbastanza per capire quanto poco sai. Per questo il tuo collega che ha scoperto Excel ieri si propone oggi per gestire il database aziendale con la sicurezza di un programmatore NASA.
L’infedeltà professionale non è quella che pensi
Dimentichiamoci per un attimo delle storie piccanti da soap opera aziendale. Quando parliamo di infedeltà professionale, parliamo di un tradimento di tipo diverso: quello della fiducia nelle competenze dichiarate. È come se qualcuno ti vendesse una Ferrari e ti consegnasse una Panda con l’adesivo del cavallino rampante.
Uno studio interessante pubblicato sulla psicologia organizzativa ha evidenziato come alcune persone usino l’iperattività lavorativa e la costruzione di una facciata di super-competenza come meccanismo per coprire frustrazioni personali o insicurezze profonde. In pratica, il workaholism diventa una copertura emotiva, un modo per dire “guardatemi quanto sono importante” mentre in realtà stai solo facendo molto rumore per nascondere la mancanza di sostanza.
Non è cattiveria pura, nella maggior parte dei casi. È paura. Paura del fallimento, bisogno disperato di validazione esterna, terrore di essere scoperti. Viviamo in una società che punisce l’errore professionale come se fosse un crimine capitale, dove ammettere “non lo so” viene visto come debolezza terminale. Quindi la gente impara a fingere, a costruire facciate elaborate, a diventare maestri dell’impression management.
I segnali che qualcuno sta bluffando alla grande
Okay, basta teoria. Come fai a capire se il tuo collega è davvero un esperto o solo un esperto nel vendere fumo? Ci sono alcuni campanelli d’allarme da tenere d’occhio.
Il linguaggio vago è il loro superpotere
Quando chiedi dettagli specifici su un progetto, le risposte diventano nebulose come la pianura padana a novembre. “Ci sto lavorando”, “È complesso”, “Dipende da vari fattori” diventano i loro mantra preferiti. Guarda caso, è esattamente lo stesso meccanismo che usano le persone quando mentono in altri contesti.
Gli studi sulla comunicazione ingannevole mostrano che chi mente tende a usare un linguaggio meno specifico, con meno dettagli concreti e più formulazioni generiche. Nel mondo del lavoro, questo si traduce in presentazioni PowerPoint bellissime ma vuote, email chilometriche che non dicono nulla, e riunioni infinite che finiscono senza decisioni concrete.
L’abuso di tecnicismi per confonderti
Ecco il paradosso più divertente: spesso chi sa meno usa più paroloni. È una strategia difensiva chiamata impression management nella psicologia organizzativa. Se riempio il discorso di termini incomprensibili, tu penserai che sono io troppo avanti, non che sono io a non sapere di cosa sto parlando.
Il vero esperto sa spiegare anche il concetto più complesso alla nonna che non ha mai visto un computer. Chi non sa complica l’ovvio per nascondere le proprie lacune. Quindi quando senti qualcuno parlare di “ottimizzazione sinergica dei touchpoint nel customer journey attraverso metodologie agile-scrum integrate” per dire “parliamo meglio con i clienti”, ecco, forse è il caso di chiedere esempi concreti.
Responsabilità ? No grazie
Altro segnale chiarissimo: quando si tratta di assumersi responsabilità dirette, spariscono come Houdini. I successi sono sempre collettivi e merito del team, i fallimenti sono sempre colpa di circostanze esterne, del mercato, di Giove in opposizione a Saturno.
Lo psicologo John Gottman, famoso per i suoi studi sulle relazioni, ha identificato nel 1993 pattern comportamentali difensivi che includono lo spostamento della colpa e l’evasione della responsabilità . Nel suo studio pubblicato sul Journal of Family Psychology, ha osservato che coppie con alti livelli di difensività avevano un tasso di divorzio del novanta percento entro quattro anni. Stessi pattern, diverso contesto: nel lavoro, questa difensività cronica è un segnale rosso gigante.
Perché la gente costruisce queste facciate
Prima di trasformarci in giudici implacabili pronti alla caccia alle streghe aziendale, vale la pena capire il perché dietro questi comportamenti. Perché spoiler: la maggior parte di queste persone non sono sociopatici manipolatori, sono semplicemente umani spaventati.
La cultura della performance che domina molti ambienti di lavoro crea un terreno fertile per questi comportamenti. In contesti dove l’errore non è tollerato, dove si celebrano solo i successi e si nascondono i fallimenti sotto il tappeto, le persone imparano rapidamente che è più sicuro fingere che ammettere di non sapere. È un meccanismo di sopravvivenza professionale, per quanto disfunzionale.
La ricerca sulla sicurezza psicologica nei team di lavoro, condotta dalla professoressa Amy Edmondson di Harvard e pubblicata nel 1999 sull’Administrative Science Quarterly, ha dimostrato che i team più performanti non sono quelli dove tutti fingono di essere perfetti, ma quelli dove c’è sicurezza psicologica per ammettere errori, fare domande e chiedere aiuto. Quando questa sicurezza manca, le facciate professionali fioriscono come erbacce.
Il bisogno di validazione esterna diventa una droga. Alcune persone usano la costruzione di una super-competenza apparente come meccanismo per colmare vuoti interni, insicurezze profonde, paure di non essere abbastanza. È lo stesso motivo per cui alcuni si tuffano nel workaholism: non per passione genuina, ma come anestetico emotivo.
Come non farti fregare e proteggere il tuo team
Okay, abbiamo capito il fenomeno, riconosciuto i segnali, compreso le motivazioni psicologiche. E ora? Come ti proteggi concretamente da questi professionisti del bluff?
Risultati concreti o morte
La strategia più efficace è brutalmente semplice: chiedi sempre esempi concreti e risultati misurabili. Quando qualcuno si propone per un progetto vantando competenze straordinarie, bombarda di domande specifiche. “Che progetti simili hai gestito? Quali risultati hai ottenuto? Puoi mostrarmi qualche esempio concreto? Quali problemi hai incontrato e come li hai risolti?”
Le domande specifiche sono il kryptonite dell’incompetenza mascherata. I veri esperti adorano parlare dei loro progetti, scendere nei dettagli tecnici, condividere sia i successi che le lezioni imparate dagli errori. Chi sta bluffando inizia a sudare freddo, devia il discorso, torna sul generico.
Crea cultura, non caccia alle streghe
Se sei in una posizione di leadership, hai un potere enorme: puoi contribuire a creare un ambiente dove ammettere “non lo so, ma posso imparare” non è una condanna a morte professionale ma un segno di intelligenza e onestà . La ricerca di Edmondson sulla sicurezza psicologica dimostra che questa è la differenza tra team mediocri e team eccellenti.
Inizia da te: ammetti quando non sai qualcosa, celebra pubblicamente chi fa domande considerate “stupide”, valorizza il processo di apprendimento tanto quanto i risultati finali. Vedrai che molte di quelle facciate elaborate inizieranno a sgretolarsi naturalmente, perché non saranno più necessarie per sopravvivere.
La buona notizia: l’incompetenza si può curare
La bella notizia in tutta questa storia è che l’effetto Dunning-Kruger non è una condanna perpetua. Gli stessi Kruger e Dunning hanno dimostrato nel loro studio che quando le persone ricevono formazione adeguata e feedback accurati, la loro autovalutazione diventa progressivamente più realistica e allineata con le capacità effettive.
Questo significa che quel collega che oggi sembra il re dei bluffatori potrebbe, con il giusto supporto, formazione e ambiente sicuro, trasformarsi in un professionista competente e consapevole dei propri limiti. La chiave sta nel sostituire la cultura della facciata con una cultura dell’apprendimento continuo, dove l’onestà intellettuale vale più della performance apparente.
Perché alla fine, il vero professionista non è quello che sa tutto, ma quello che sa cosa sa e cosa non sa, e ha l’umiltà di ammettere entrambe le cose. In un mondo di facciate professionali elaborate, l’onestà sulle proprie competenze diventa quasi un atto rivoluzionario. La prossima volta che vedi quel collega che parla tanto e combina poco, prima di giudicarlo troppo duramente, chiediti: quanto di quello che vedo è incompetenza mascherata da sicurezza, e quanto è semplicemente paura di non essere abbastanza in un mondo che non perdona gli errori?
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